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Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché egli fa levare il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. Se infatti amate quelli che vi amano, che merito ne avete? E se salutate soltanto i vostri fratelli, che fate di straordinario? Non fanno altrettanto anche i pagani? Voi dunque siate figli del Padre vostro celeste, che è perfetto.
Matteo 5,43-48

La sfida del presente: tornare ad amarci, amando il nostro nemico

  • | Giulietta Bandiera | Opinioni

Un’esperienza personale, come metafora della separazione sociale e spunto di riflessione sulla la necessità di conciliarsi con chi vede il mondo in modo diverso da noi, comprendendo che laddove vi è una distanza, in fondo non vi è che uno specchio, che riflette le nostre contraddizioni interiori. Uno specchio rotto, che solo l’amore può riparare

Voglio raccontarvi una storia, che di recente mi ha fatto molto riflettere.

Quando avevo quattordici anni, il mio unico fratello, che ne aveva tredici, era molto malato. Aveva un cancro nel cervelletto, in quella zona alla base del cranio che paradossalmente si chiama “albero della vita”, ma che nel giro di poco tempo la vita gliel’avrebbe portata via.

I miei genitori erano costantemente impegnati ad occuparsi di lui e in quella fase io dovevo arrangiarmi da sola, perché nessuno faceva caso a me, in una situazione così drammatica.

Proprio quell’anno io dovevo scegliere la scuola superiore e i professori delle medie avevano consigliato il liceo classico, dicendo che ero portata per le materie letterarie.

Nel posto dove vivevamo, però, il classico non c’era, così i miei decisero frettolosamente di iscrivermi al liceo scientifico, senza tener conto che si trattava di una scuola che proprio non faceva per me.

Se già capivo poco di numeri e di disegno tecnico, a peggiorare ulteriormente le cose si era aggiunto il difficile rapporto con i miei compagni di quell’anno, tutti ragazzi della buona borghesia locale, dai quali mi sentivo emarginata e trattata come un corpo estraneo, forse perché provenivo da una famiglia modesta - per giunta del sud - e soprattutto perché mi era semplicemente impossibile, vista la situazione che vivevo in casa, condividere la loro beata spensieratezza.

Il dolore e la preoccupazione per la malattia di mio fratello mi avevano resa ancor più inquieta e suscettibile di quanto già non fossi per carattere e i miei coetanei lo percepivano, senza però comprenderne la ragione.

Soltanto uno di loro, che chiamerò Effe, aveva un atteggiamento differente dagli altri.

Lui non si limitava ad ignorarmi. No. Lui proprio mi detestava ed io, pur soffrendone moltissimo, provavo perfino una vaga gratitudine verso la sua ostilità, che rappresentava, se non altro, un moto vitale, preferibile all’indifferenza degli altri.

Ovviamente l’anno scolastico fu disastroso per me e, nel mese di settembre, mio fratello morì e io non trovai la forza per presentarmi agli esami di riparazione.

Persi perciò l’anno e decisi di cambiare scuola.

Di tutti i miei compagni, in quel frangente, solo Effe, il mio più acerrimo nemico, quello che in precedenza non aveva perso occasione per deridermi, umiliarmi e insultarmi, mi disse che gli era dispiaciuto per la morte di mio fratello, incontrandomi il giorno della mia rinuncia agli esami. La cosa mi toccò molto, ma finì lì e in seguito ci perdemmo di vista.

Rividi per caso Effe, quando di anni ne avevamo circa ventidue.

Lui era diventato bellissimo e incredibilmente sexy, ma faticò perfino a riconoscermi quando lo salutai, mentre io ne rimasi folgorata.

Cominciai allora ad informarmi sul suo conto, scoprendo che era uno dei ragazzi più ambiti del circondario. Molte mie amiche avrebbero fatto carte false per stare con lui.

Io però non ero mai stata bella e cercai di rendermi immune al suo fascino, considerandolo decisamente al di fuori della mia portata.

Poi, il giorno prima del mio ventitreesimo compleanno, siccome era sempre rimasto nei miei pensieri, decisi all’improvviso di chiamarlo al telefono e di proporgli di festeggiare insieme a me. Volevo farmi un regalo e possibilmente anche dirgliene quattro per come mi aveva trattata in passato.

Solo che, facendo quella telefonata, paradossalmente non avevo considerato minimamente l’eventualità che lui dicesse di sì.

Cosa che invece fece, prendendomi in contropiede.

Stabilimmo perciò di mangiare insieme una pizza, dopo i suoi allenamenti serali, dato che giocava a calcio in una serie minore.

Peccato che io trascorsi quel giorno fatidico in preda a una tale agitazione da dare di stomaco, così che quella sera, lui la pizza se la mangiò da solo, mentre io dovetti accontentarmi di un triste succo di frutta.

In compenso parlammo moltissimo e scoprii che, oltre ad essere fichissimo, aveva pure una bella testa. Inoltre aveva perso del tutto quel modo sprezzante di guardarmi che aveva quando eravamo ragazzini.

Dopo di allora diventammo amici ed io cominciai ad andare a vederlo giocare a calcio, in un campetto di periferia, una domenica sì e una no, quando giocava in casa, insieme a due miei cugini più piccoli, che si divertivano alle mie spalle dicendo che avevo una cotta per lui. Probabilmente era vero, ma la cosa riguardava me sola, perché continuavo a considerarlo decisamente al di fuori della mia portata.

Di lì a non molto la vita prese un’accelerazione imprevista e finimmo entrambi per sposarci.

Con persone diverse.

Seppi più tardi che lui era venuto a vedermi di nascosto mentre entravo in chiesa, il giorno delle mie nozze e io feci lo stesso, a mia volta, senza mai rivelarglielo, il giorno che lui si sposò in municipio.

In seguito lo vidi sporadicamente, solo qualche volta di sfuggita, magari al supermercato, mentre comprava pannolini per le sue figlie e più tardi, diversi anni dopo, quando entrambi ci separammo e io mi trasferii nella grande città, per degli sporadici aperitivi che organizzavamo giusto per scambiarci un saluto, quando a me veniva nostalgia di casa.

Oggi, invece, a casa ci sono tornata.

C’è stata la pandemia, il lockdown, il lavoro che ha subito radicali cambiamenti e io stessa, che, non essendo più così giovane, ho sentito la voglia di tornare più vicina al verde, ai ricordi, alla vita più semplice della provincia.

Per una pura casualità (ammesso che il caso esista in questa storia), oggi Effe ed io abitiamo a cinquecento metri l’uno dall’altra.

Non lo sapevo quando ho comprato questa nuova casa, l’ho scoperto solo quando ci siamo dati appuntamento di recente per un’altra pizza, a più di trent’anni di distanza dalla prima.

Oggi lui è nonno. Tre quarti della nostra vita l’abbiamo già vissuta, perciò non siamo più gli stessi. Tranne che per una cosa, però: continuiamo ad essere una l’opposto dell’altro. Come la notte e il giorno.

Abbiamo visioni diametralmente diverse del mondo. E oggi anche del covid, dei vaccini, del lasciapassare e di tutto ciò di cui tanto si discute in giro.

In compenso ci vogliamo bene e abbiamo rispetto uno dell’altra, perciò, quando ci capita, ci piace confrontarci su quello che sta accadendo, senza prenderci troppo sul serio. Anzi, è proprio grazie a questo nostro strano rapporto di polarità, che ho capito che l’amore è davvero l’unico ponte possibile fra le dimensioni, oltre ad essere il linguaggio capace di conciliare tutti i diversi linguaggi.

Ma se penso a quanta strada abbia fatto questa informazione per raggiungermi, se penso da dove sia partita la vita per insegnarmi questa lezione, davvero rimango senza fiato.

Fin da quando Effe ed io eravamo solo due liceali quattordicenni, che si scontravano perché non riuscivamo a comprendersi, né a riconoscersi, pur specchiandosi, già allora, uno nell’altra, come le due facce del Tao: il bianco e nero, ma con un seme di bianco nel nero e con un seme di nero nel bianco.

Questa storia non ha tuttavia un lieto fine tradizionale, perché l’amore a cui mi riferisco, quello che lega me e Effe dopo tanti anni, ha un altro nome e un’altra qualità rispetto all’amore romantico che si vede nei film.

Il suo nome è agape. E agape è in realtà il vero nome dell’amore, perché rappresenta l’amore maturo, senza ragione, senza egoismi, senza aspettative e senza condizioni, l’amore che ti accoglie e che accoglie l’altro totalmente, nella reciproca diversità, riconoscendo la libertà di entrambi di essere sé stessi.

È un nuovo genere di amore, questo qui, che forse fa meno sognare di quello passionale, ma che è così bello, ma così bello, che non trovo le parole per esprimerlo. So solo che è questo – che può essere solo questo - l’amore che ci salverà e che ci porterà oltre ogni dicotomia, oltre ogni separazione, in un momento in cui è diventato veramente urgente gettare ponti sull’abisso. Non solo là fuori, nella società, ma ancor più all’interno di noi stessi, nei recessi più reconditi dei nostri cuori spezzati, che solo l’amore può ricomporre.